Intervista a Giampiero Massolo

Giampiero Massolo è un diplomatico italiano, già Segretario generale del Ministero degli Affari Esteri. Attualmente è Presidente di Mundys (ex Atlantia), ruolo che ricopre dall’aprile del 2022. In precedenza ha ricoperto per quattro anni l’incarico di Presidente di Fincantieri e di Direttore generale del Dipartimento delle informazioni e della Sicurezza (DIS). Da 2017 al 2024 è stato inoltre Presidente dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI).

Ambasciatore, negli ultimi anni ci siamo concentrati su minacce asimmetriche come il terrorismo e il cyberwarfare. Con la guerra in Ucraina e le tensioni in Medio Oriente, siamo tornati ai conflitti convenzionali. Qual è la sua opinione su questo ritorno alle minacce tradizionali?

In realtà, le minacce tradizionali non sono mai del tutto scomparse. Abbiamo creduto che la globalizzazione potesse eliminare o almeno ridimensionare i rischi legati ai confini e alla guerra convenzionale, ma gli eventi recenti, come quelli in Ucraina e in Medio Oriente, ci ricordano che queste minacce esistono ancora e sono rilevanti. Tuttavia, oggi queste minacce tradizionali si sovrappongono e coesistono con quelle asimmetriche, come il terrorismo jihadista, gli attacchi cyber, e i rischi derivanti dalla tecnologia. Ci troviamo quindi in una situazione molto più complessa. La deterrenza tradizionale – quella fondata sull’equilibrio del terrore nucleare o sulla superiorità militare convenzionale – non funziona più come in passato, poiché le minacce si sono moltiplicate e diversificate. Quello che stiamo osservando, in particolare con il conflitto in Ucraina, è che lo scontro diretto, il conflitto “classico”, ha ancora un impatto devastante. Eppure, in parallelo, siamo costretti a considerare le implicazioni della guerra cyber, dell’informazione e dei nuovi equilibri geopolitici che non si basano più solamente sulla forza militare, ma anche su fattori economici e tecnologici. In questo contesto, la Cina e la Russia hanno giocato un ruolo importante nel risvegliare questo ritorno alla guerra tradizionale, pur continuando a sfruttare le armi della disinformazione e del cyberwarfare.

 A proposito di Europa, cosa dovrebbe fare per affrontare questa crescente complessità nelle minacce e nelle sfide?

L’Europa deve inevitabilmente ripensare e ridefinire la propria strategia di difesa, partendo dal potenziamento delle proprie capacità industriali e tecnologiche, perché una delle lezioni principali di questi anni è che senza sovranità tecnologica e capacità produttiva, non si è in grado di difendersi o di avere un ruolo autonomo nella scena internazionale. Il contesto globale ci impone di prendere delle decisioni rapide: la rivalità tra Stati Uniti e Cina non è più soltanto economica, è anche strategica, e questo costringe l’Europa a fare delle scelte. La Cina ha un ruolo centrale nell’industria tecnologica e nelle infrastrutture energetiche e molte nazioni si trovano di fronte a un dilemma: scegliere tra tecnologia cinese, meno costosa ma più rischiosa dal punto di vista della sicurezza, e quella occidentale, che è spesso più costosa e regolamentata, ma più sicura. Ma c’è un altro problema fondamentale per l’Europa: il rapporto con gli Stati Uniti. Negli ultimi anni, la dipendenza europea dall’ombrello protettivo americano si è ridotta, ma non abbastanza da garantire una vera autonomia strategica. Per diventare un attore rilevante nel nuovo ordine globale, l’Europa deve investire nella propria difesa, nella ricerca tecnologica, e nelle infrastrutture critiche, soprattutto nel settore digitale e della produzione di semiconduttori. Solo così potrà evitare di rimanere ai margini del confronto tra le grandi potenze.

Un tema di grande attualità è la crescente influenza delle grandi aziende tecnologiche. Come vede la governance del digitale e la crescente potenza delle Big Tech?

La potenza delle grandi aziende tecnologiche è ormai una realtà globale, e gli Stati stanno cercando di trovare risposte. Da un lato, abbiamo modelli come quello cinese, in cui il governo esercita un controllo diretto e centralizzato sulle aziende tecnologiche. Dall’altro, l’Europa sta cercando di imporre regole e regolamenti per contenere e bilanciare il potere delle Big Tech. In mezzo ci sono gli Stati Uniti, che invece lasciano maggiore libertà alle grandi aziende private, permettendo loro di dominare il panorama tecnologico e digitale. Nel complesso, ci troviamo in una fase di transizione in cui gli Stati stanno perdendo sovranità in certi settori, soprattutto quello tecnologico e dei dati, e le grandi aziende stanno assumendo un ruolo sempre più centrale nella regolamentazione e gestione di infrastrutture vitali. Questi giganti non si limitano a dominare il mercato, ma controllano anche enormi quantità di dati sensibili, che possono influenzare le economie, le società, e perfino la politica. La sfida, soprattutto per l’Europa, è quella di creare un quadro normativo che protegga i cittadini e la sovranità nazionale, senza però ostacolare l’innovazione.

Cambiando prospettiva, parlando di dinamiche economiche, come sta cambiando il rapporto tra capitale e lavoro nell’era digitale?

Stiamo assistendo a una redistribuzione del potere economico tra capitale e lavoro. Il capitale, soprattutto quello tecnologico, ha acquisito una forza enorme. Le grandi aziende tech, che operano su scala globale, generano profitti enormi con un numero relativamente limitato di lavoratori, molti dei quali altamente qualificati. Allo stesso tempo, il lavoro meno qualificato è sempre più vulnerabile, in quanto viene sostituito da processi automatizzati o da algoritmi. La transizione tecnologica ha quindi accelerato questa polarizzazione economica: da un lato, le élite tecnologiche e finanziarie accumulano ricchezza e potere; dall’altro, i lavoratori meno qualificati vedono ridursi le loro prospettive di carriera e di reddito. Questo squilibrio tra capitale e lavoro è una delle sfide più urgenti che dobbiamo affrontare. Non solo per ragioni di equità sociale, ma anche per la stabilità delle nostre democrazie.

Parlando di tecnologia, stiamo assistendo a progressi enormi in settori come l’Intelligenza Artificiale e il Quantum Computing. Questi sviluppi possono diventare anche armi?

Senza alcun dubbio. L’Intelligenza Artificiale, per esempio, ha il potenziale per trasformare molteplici settori, dall’economia alla sanità, migliorando la vita di milioni di persone. Ma allo stesso tempo, può essere utilizzata in ambito militare per sviluppare armi autonome, sistemi di sorveglianza avanzati, o addirittura per creare disinformazione su larga scala. Lo stesso vale per il Quantum Computing, che può rivoluzionare la crittografia, rendendo obsoleti gli attuali sistemi di sicurezza, ma potrebbe anche essere utilizzato per violare dati sensibili a livello globale. In sostanza, la tecnologia moderna è sia un bene pubblico che una potenziale minaccia. E come tutte le innovazioni, dipende da come viene utilizzata e dalle regole che vengono stabilite per controllarla. La sfida sarà quella di trovare un equilibrio tra il progresso e la sicurezza, tra la libertà di innovare e la necessità di proteggere la società dalle conseguenze negative dell’uso improprio della tecnologia.

Uno degli aspetti più discussi è il cyberwarfare. Come mai non ha avuto un ruolo decisivo nei conflitti recenti, nonostante le previsioni?

Il cyberwarfare è una minaccia costante e presente, ma non ha ancora avuto il ruolo centrale che ci si poteva aspettare. La ragione è duplice. Da un lato, ci sono stati vari attacchi cibernetici a infrastrutture critiche, che hanno causato danni economici e politici, ma non al livello di un conflitto su larga scala. Dall’altro lato, esiste un’enorme preoccupazione per il rischio di escalation. Un attacco cyber che colpisce infrastrutture critiche – ad esempio, una rete elettrica o un sistema sanitario – potrebbe scatenare una risposta imprevedibile e potenzialmente devastante. Inoltre, a differenza delle armi tradizionali, la deterrenza non funziona nel cyberspazio. Non ci sono accordi internazionali che regolino il cyberwarfare in modo efficace, e questo rende il tutto molto più pericoloso e meno prevedibile. Molti Stati preferiscono utilizzare il cyberwarfare come arma di pressione o di disturbo, piuttosto che rischiare un conflitto su larga scala. Tuttavia, non dobbiamo sottovalutare il potenziale distruttivo del cyberwarfare, che potrebbe in futuro diventare un’arma decisiva in conflitti internazionali.

Alla luce di queste considerazioni, l’Europa è pronta a fronteggiare queste minacce o è troppo dipendente da altri?

L’Europa purtroppo è ancora dipendente, soprattutto dal punto di vista tecnologico. Siamo diventati, in un certo senso, una potenza economica ma non una potenza strategica. Questo è evidente quando guardiamo alla nostra dipendenza dalle tecnologie americane o cinesi, sia nel campo dell’energia, che in quello delle telecomunicazioni o della sicurezza digitale. Abbiamo fatto molti progressi, ma c’è ancora molto da fare. Il vero problema è la mancanza di una visione comune tra i Paesi europei. Ognuno tende a perseguire i propri interessi nazionali, piuttosto che lavorare insieme per una difesa comune e una strategia tecnologica condivisa. Se l’Europa vuole davvero affrontare le sfide future, dovrà investire nella sua autonomia strategica, rafforzando le proprie capacità nel settore della difesa, della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica. Altrimenti, rischiamo di diventare sempre più irrilevanti nello scenario globale.