A colloquio con Pasquale Stanzione, Presidente Autorità Garante per la protezione dei dati personali

Serve una pedagogia digitale per arrestare la violenza in rete e ridare sostanza alle promesse di libertà e democrazia

A cura di Massimiliano Cannata

Ogni anno la Giornata dedicata al diritto alla protezione dei dati personali voluta dal Consiglio d’Europa rappresenta l’occasione per riflettere sulle implicazioni sociali ed economiche dell’innovazione tecnologica. Pasquale Stanzione, presidente dell’Autorità ha scelto di soffermarsi sulle fenomenologie della violenza, che trovano nella Rete uno specchio riflettente di preoccupante amplificazione, come fa vedere molto bene la cronaca ogni giorno.

Presidente Stanzione, il focus della sua approfondita e intensa relazione è individuabile in un binomio molto preciso: la violenza della rete e nella rete. Non certo una duplice dimensione che deve far riflettere. Quali scenari si stanno aprendo su questo delicato fronte?

Le interrelazioni tra il web e la violenza sono più profonde e ambivalenti di quanto la drammatica contabilità delle loro aberrazioni può far pensare. Siamo di fronte a uno degli aspetti che Natalino Irti definisce “irresistibile normatività della tecnica”, a proposito della sua particolare attitudine a modificare struttura, relazioni, dinamiche e culture, incidendo nel profondo nell’antropologia sociale. La rete, esprime, infatti, la morfologia sociale dell’oggi. La sua degenerazione non può non intrecciarsi con la drammaticità dei problemi epocali, a partire dagli episodi sempre più frequenti di diffusione sui social di immagini di stupri commessi da ragazzi, in gruppo, su ragazze, sole. Eventi drammatici che non possono essere sottovalutati.

Sotto scacco le garanzie di pluralismo informativo e politico

Molteplicità ed efferatezza delle forme di violenza allarmano l’opinione pubblica. Possiamo prenderne alcune in esame?

Prenderei come primo esempio, una forma sottile e ambigua di violenza intesa come condizionamento delle scelte, non solo di consumo ma anche politiche come insegna il caso Cambridge Analytica. Attraverso il pedinamento digitale e la conseguente profilazione della persona si tende a modellare, infatti, il messaggio commerciale, informativo o finanche politico da promuovere e la rappresentazione del reale che si ritiene più utile rendere, orientando il consenso verso il risultato voluto. Si eludono così, in una sorta di brain-hacking, le garanzie del pluralismo informativo e politico, nonché dell’autodeterminazione del cittadino, con il rischio di una manipolazione del consenso tale da alterare profondamente i più importanti processi democratici.

In che misura i fenomeni di cui stiamo parlando incidono sulla libertà della persona?

Con diversa modalità e intensità. Il nudging, tipica forma di manifestazione del potere privato delle piattaforme, per quanto condizioni l’esercizio di alcuni fondamentali diritti, anche politici, non può essere paragonato all’ efferatezza di immagini di abusi sessuali diffuse in rete, con la loro carica ulteriormente lesiva per la vittima, che si spinge fino all’umiliazione indotta dall’ hate speech. Sono per altro diversi gli autori e le dinamiche di queste violazioni: nel primo esempio preso in esame sono le piattaforme stesse, negli altri casi sono gli utenti che si avvalgono dello strumento digitale per vessare, umiliare, discriminare gli altri o anche “solo” amplificare, sfruttando la potenza di fuoco del web, gli effetti di abusi consumati nella dimensione reale.

Siamo dentro il “lato oscuro” del web, di cui ancora poco si conosce. Quali sono i rischi da cui dobbiamo tutelarci?

Il “lato oscuro” della Rete si presta a delle logiche di sopraffazione che finiscono con il contraddirne l’originaria promessa democratica. La rete si può oggi presentare come spazio deviante, canale e mezzo di realizzazione di reati, in primo luogo contro interessi collettivi primari. Significativo, in questo senso, il cybercrime o, comunque, l’uso della rete a fini istigativi, propagandistici, reclutativi, apologetici del terrorismo. Si sta per altro registrando, un significativo aumento (imputabile anche al parallelo maggiore ricorso all’e-commerce) anche delle attività predatorie on-line, che hanno determinato, secondo i dati della Polizia postale, il deferimento all’autorità giudiziaria di 3.500 persone nell’anno. Sono le caratteristiche stesse del mezzo digitale che incidono profondamente sulla dinamica della violenza che lì si manifesta: persistenza, pervasività, emulazione, difficile contendibilità. Una volta immessi in rete i contenuti vi restano tendenzialmente per sempre: se ne perde la signoria, vengono condivisi da utenti terzi, diventa perciò difficile rintracciarli nella catena infinita di link in cui spesso finiscono. È inevitabile che il fitto intreccio di queste fenomenologie incidono sulla percezione di sicurezza degli utenti che sentono la legittima esigenza di frequentare la rete come strumento di lavoro e di acquisizione della conoscenza.

L’infosfera è oggi attraversata da molteplici forme di reato

Revenge porn, abusi filmati, la sexortion richiesta dai caratteri estorsivi che si rivolta soprattutto ai minori, sotto la “Lente” del Garante sono finite diverse fattispecie che si consumano nell’infosfera, categoria in cui reale e virtuale sono categorie dell’essere ormai inseparabili. Con quali conseguenze?

Riprendo le parole di Umberto Eco: La micro-celebrità che assicura il web, con il mito di influencer seguiti da milioni di follower, sembra poter liberare da quello che, soprattutto ai ragazzi, appare uno “spaventoso e insopportabile anonimato”. Bisogna comprendere questa dinamica psicologica per capire il rapporto osmotico, e spesso inconsapevole, che i ragazzi intessono con le nuove tecnologie. Il paradosso di voler riprodurre on line la propria vita, anche al prezzo di quella degli altri, come nel caso del bimbo travolto, lo scorso giugno, dall’auto in corsa di alcuni youtuber, nella loro ricerca spasmodica di un like in più, si spiega in questo orizzonte perverso che confonde: valori, categorie, dimensioni dell’essere. Quest’alienazione dal reale è il frutto della virtualizzazione della vita, componente difficile da governare, in cui si rischia di confondere la persona con l’avatar, finendo col ridurre anche la percezione del “male”, di cui la rete offre spesso una “narrazione pornografica”.

Ogni percezione della sofferenza sfuma, quasi la vita si consumasse in un perenne videogame. Una malattia difficile da curare, non crede?

Direi di più sembra attenuarsi, fin quasi a scomparire, quel “sentimento supremo”, quella “telepatia delle emozioni” che Milan Kundera identificava nella compassione intesa, etimologicamente, come capacità di “sentire” l’altrui sofferenza. Il legame tra minori, violenza e rete racconta molto del nostro presente e delle distorsioni cui può condurre la congiunzione tra povertà etico/affettivo/educativa e sottovalutazione degli effetti della rete. Il malinteso anonimato del web, così come la defisicizzazione dei rapporti, (fenomeno che avviene quando l’altro è ridotto a immagine, profilo, avatar) sono fattori che alimentano, soprattutto nei giovani, quell’aggressività che spesso nella vita offline incontra il limite dell’inibizione e la deterrenza del controllo sociale, penso al cyberbullismo. Non dimentichiamo che lo stesso termine “violenza” tiene insieme, i termini greci: “βίος” che significa vita e “βία” che vuol dire violazione del limite, delle regole, come a sottolineare questo tempo dell’eccedenza, insieme al meccanismo d’interdizione che sono sottesi all’esercizio della violenza.

Chiedo in conclusione: cosa si può fare per interrompere la dilagante escalation di reati?

Dobbiamo utilizzare tutta la conoscenza, la consapevolezza e la competenza di cui siamo capaci per illuminare il lato oscuro della rete, rendendola, come dicevo prima, quello strumento di libertà, pluralismo e democrazia che dovrebbe costituirne il DNA. In questo percorso è necessario mettere in campo una pedagogia digitale che è - per l’istituzione che ho l’onore di presiedere – una priorità, un tassello necessario della formazione dei futuri cittadini, che devono comprendere che proteggere i dati, che attengono alla propria sfera personale, vuol dire difendere la libertà come valore indefettibile, scongiurando il pericolo incombente, di divenire, come ha scritto molto bene Michele Serra, schiavi della “dittatura della presenza”.